RECENSIONE BREVE
Il dramma di un uomo che ha amato per un breve lasso di tempo e che non è riuscito a elaborare il lutto per la morte della persona da lui amata.
Chi non ricorda la famosa domanda pronunciata da Maria ne“ Storia di una Capinera” (romanzo epistolare di Verga, scritto nel 1869 e riadattato nel cinema da Zeffirelli nel 1994): Si può morire d'amore? -"Tanto, tanto amore, tanta tanta luce, tanto sole”? Ecco, è come se il protagonista di “Diario di un cadavere”, l’ex professore universitario Steven Aubrey, ci desse una dimostrazione empirica che sì, si può impazzire per amore, uscire completamente fuori di senno e sprofondare nell'oscurità. Amore e sofferenza diventano così un binomio inscindibile che porta direttamente alla follia. Con la perdita dell’amore, Steven Aubrey perde se stesso. Nella speranza forse di ritrovarsi, si affida a uno psichiatra, il dottor Cristopher Lund, con il quale ha incontri solo via web cam, e scrive un diario. Ma forse è troppo tardi per tornare a vedere la luce. L’oscurità sembra ormai avvolgerlo in modo ineluttabile. Il suo orologio da taschino è ormai fermo. Il tempo che scorre forse non ha neanche più importanza. Lui ormai non esiste più, o meglio, non esiste più come prima. La sua metamorfosi in cadavere gli produce un'implosione che manda all'aria gran parte del suo raziocinio. L’uomo-non uomo o non più uomo sospetta, ancora prima di ricevere una diagnosi ufficiale, di soffrire della sindrome di Cotard: è convinto di essere morto. C’è una parte di lui che lucidamente analizza il suo disagio psichico. E così come un “Zeno alla rovescia”, anziché “scrivere per vedersi intero” e ritrovarsi, appunta tutto ciò che ratifica il fatto che lui ormai non possa più vedersi intero, perché non è neanche più un uomo, ma qualcosa di diverso, qualcosa che potrebbe essere più simile a un vampiro. L’immersione nella coscienza e la costante introspezione che s’impegna a fare sembrano allontanarlo sempre di più dal reale.
Un racconto gotico che non mescola kafkanamente il reale con l’assurdo, come forse potrebbe sembrare, ma mescola il reale con una follia tangibile, dolorosa, proiettata nella strada del non ritorno, perché il tempo non ritorna mai indietro. Un racconto che sembra scritto per “orientare al disorientamento” il lettore, che precipita nell’abbrutimento più totale di un uomo non più uomo, che si nutre di quanto di più disgustoso si possa pensare. Come di fronte a un quadro ognuno può dare la propria interpretazione, così in Diatio di un cadavere ognuno può trarre un significato diverso e le conclusioni che vuole in base alla sua coscienza e alla sua sensibilità. Forse davvero la follia è una via di fuga dal dolore? A rischio di essere beceramente didascalica, se non si fosse capito, rendo evidente che ho molto appezzato questa storia, sia per l’originalità dell’autrice nel dare voce a una creatura che si è persa nella sua follia, sia per lo stile pulito ma non banalmente accademico. Maddalena Marcarini è riuscita a trasmettere al lettore un bel ventaglio di sensazioni: dalla malinconia alla nostalgia del tempo andato, al disagio e al vuoto di un presente crudele.
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