“La giustizia è un atto violento”
Premessa
Affidare a me una lettura che tratta il tema della vendetta è quasi un gesto auto-sabotatorio, una vera e propria opera suicidiaria. Dico sul serio! È come invitare un contabile a gestire il budget di una festa o un allergico a servire il buffet. E perché? Perché ho aspettative altissime! Dopo aver esplorato capolavori come per esempio “Pietà” di Kim Ki-duk, dove la vendetta si intreccia con il dolore e la redenzione in un modo psicologicamente rigoroso, le mie esigenze si sono elevate a livelli stratosferici (la maestria con cui Kim Ki-duk delinea il tormento interiore dei suoi personaggi ha fissato un parametro difficile anche solo da avvicinare).
Il tema della vendetta è carico di sfumature e complessità e trattarlo con superficialità è un rischio che non posso permettermi, sia come autrice, quando l’ho affrontato nei miei stessi romanzi, sia come recensitrice. Non voglio cadere nel tranello degli stereotipi o semplificare la ricchezza delle emozioni coinvolte. Ho visto troppe opere che si perdono in cliché e semplificazioni per tollerare un’interpretazione banale.
Ecco perché mi sono avvicinata a “Senza Apparente Motivo” di Roberto Artellini con uno sguardo critico e la mente aperta: ho apprezzando il coraggio dell’autore, desiderando di scoprire come egli avbbia trattato le sfide etiche e psicologiche della vendetta, anche se nel timore di dovermi io confrontare con i miei parametri altissimi.
Recensione
Il protagonista, Stefano, è devastato dalla perdita della sorella Chiara, il cui suicidio appare inspiegabile. Tuttavia, Stefano è convinto che dietro quel gesto vi sia una ragione oscura e identifica un gruppo di ragazzi come i responsabili morali della sua morte. Qui, la narrazione si fa cruda e implacabile, seguendo la trasformazione interiore di Stefano, che da fratello addolorato diventa un uomo consumato dalla sete di vendetta. Artellini dimostra una buona abilità nel tratteggiare questa metamorfosi, catturando ogni sfumatura emotiva, dal dolore alla collera, fino alla lucida pianificazione della vendetta con il fratello Paolo.
Il romanzo si muove tra il dolore familiare e un universo morale sempre più deformato. La vendetta, infatti, non è mai semplice o catartica; al contrario, diventa una spirale discendente che avvolge i protagonisti in una nebbia di ossessioni. L’autore non giudica mai, lasciando che i suoi personaggi agiscano in un limbo etico, sollevando una domanda fondamentale: è davvero possibile trovare sollievo attraverso la vendetta o si finisce per distruggere ciò che resta della propria umanità?
Culturalmente, l’opera si inserisce in una tradizione letteraria che ha fatto della vendetta un tema classico, ma lo rinnova con una discreta intelligenza narrativa che rende Stefano una figura moderna. La sua vendetta non è eroica, ma un percorso di autodistruzione silenziosa. Nella sua storia c'è qualcosa di profondamente umano e dolorosamente reale, una riflessione sottile sul confine tra giustizia e vendetta, che sfida il lettore a interrogarsi su cosa separi il desiderio di riparare un torto dall’intento di infliggere dolore.
Il mondo in cui Artellini ambienta la vicenda è quello della provincia italiana, una scelta strategica che amplifica il senso di claustrofobia e fatalismo. Questo ambiente circoscritto rende la narrazione ancora più potente e soffocante, come se le vite dei personaggi fossero destinate a collidere inevitabilmente. Il romanzo si nutre delle piccole tensioni, dei sussurri di paese e delle dinamiche familiari disgregate, tracciando un microcosmo in cui la vendetta diventa l’unica via di fuga per chi non sa più come elaborare il proprio lutto.
Lo stile di Artellini è asciutto ma denso di suggestioni. Ogni parola è misurata per scavare nelle profondità dell’animo di Stefano, raccontando una discesa agli inferi senza mai cadere nel melodramma. C’è una pacata eleganza nella sua scrittura, (non mi riferisco al realistico turpiloquio dei dialoghi diretti) che avanza implacabile, quasi guidata dallo stesso impulso del protagonista: la necessità di dare un senso al caos interiore. L’assenza di enfasi retorica rende il romanzo ancor più devastante, poiché ogni azione compiuta da Stefano appare inevitabile, come se fosse già scritta in un destino ineluttabile.
La costruzione della trama è intensa: ogni capitolo aggiunge un tassello alla complessità di Stefano, mantenendo alta la tensione emotiva fino al climax finale. Ma più del puro intreccio, colpisce la capacità dell’autore di farci riflettere sul significato stesso della vendetta. È solo uno strumento di giustizia personale? Oppure, si rivela una prigione, un atto che non può restituire ciò che è stato perduto, ma solo alimentare ulteriore dolore?
Senza Apparente Motivo seduce il lettore con la sua atmosfera cupa e avvolgente, parlando di ferite personali, vendette silenziose e di un mondo in cui la giustizia è un miraggio. Artellini ha costruito un racconto che non offre risposte semplici, come è giusto che sia quando si tratta il tema della vendetta, ma invita a meditare sulla natura umana e sui suoi limiti. È un libro che si legge con l’anima in bilico, consapevoli che non ci sono veri vincitori nella ricerca di vendetta, solo anime spezzate che cercano di ritrovarsi tra le macerie.
A chi lo consiglio…
Consiglio questo romanzo a chi ama le letture che esplorano l’animo umano nelle sue molteplici sfaccettature. Certamente bisogna essere predisposti a una letttura con scene cruente e forti. Se siete in cerca di storie in cui la vendetta si intreccia con la complessità emotiva, dove i colpi di scena si rivelano in modo sottile e graduale, questo libro potrebbe fare al caso vostro. Se sono riuscita ad apprezzarlo io, che non prendo alla leggera il tema della vendetta, è molto probabile che anche voi troviate elementi interessanti tra le pagine di questo romanzo. È perfetto per chi cerca un intreccio ricco di tensione e introspezione, evitando quegli effetti speciali da blockbuster che spesso appesantiscono la narrazione.
LINK PER L'ACQUISTO