Cari amici lettori, autori, editori e curiosi,
in questa nuova “Intervista al recensore di libri”, avremo modo di conoscere meglio Alessandro Liburdi, professore di mestiere e recensore per diletto, del blog letterario (e non solo) “LavocediTristan”, un blog alquanto interessante e originale, che per me è stato davvero una bella scoperta. Inoltre, Alessandro dà spazio anche (udite, udite!) alla poesia.
Tengo immediatamente a ringraziare Alessandro per essersi prestato all’intervista e aver risposto con chiarezza e onestà intellettuale anche alla domanda più insidiosa sull’editoria a pagamento. Come il solito, bonariamente invidio chi riesce a trattare il tema con tanta pacatezza (purtroppo io continuo a essere una “iena dell'Eap”).
Ora lascio la parola ad Alessandro, non prima però di invitarvi a visitare il suo affascinante blog, di cui troverete in calce il link. Noterete subito quanto esso sia ben strutturato e quanto le recensioni di Alessandro siano profondamente analitiche e coinvolgenti, recensioni che ho avuto modo di apprezzare da nuova utente. Eh sì, ora navigherò piacevolmente anch'io tra le sue acque.
Buona lettura!
Ciao Alessandro, ti vuoi presentare a chi ci legge? Parlaci un po’ di te e del tuo blog.
Ciao Elisa, innanzitutto grazie per avermi ospitato sul tuo sito. Mi chiamo Alessandro Liburdi e sono un insegnante di Italiano e Storia presso l’IPSSEOA di Ceccano (FR). Ho aperto lavocediTristan alla fine del 2014 mentre parallelamente svolgevo uno stage presso un giornale locale. Il blog è nato con un intento chiaro: quello di pubblicare integralmente gli articoli scritti per la testata che venivano tagliati o censurati per i superiori interessi editoriali. Da allora il blog ha assunto una fisionomia più vicina a tutti i miei interessi: dentro ci sono corsivi sulla politica nazionale e locale, articoli sulla scuola e l’insegnamento, racconti di viaggio, poesie e, ovviamente, recensioni di libri. Un’identità apparentemente confusa e, invece, più vicina alla definizione di quello che sono io e che, in fondo, ognuno di noi è: un’identità plurima e poligrafa, che cerca di leggere e decifrare la realtà in cui è capitata.
Quando e perché hai deciso di diventare recensore di libri?
È un po’ difficile stabilire il quando e il perché esatti. A pensarci bene in realtà, già dai tempi dell’università, leggendo – o meglio studiando – i libri oggetto d’esame (romanzi, raccolte di racconti, sillogi di poesie, manuali di saggistica) mi capitava di raccogliere appunti abbastanza dettagliati che ben potevano finire in una recensione. Con il passare del tempo e l’approfondirsi degli studi letterari, ho cominciato a mettere nero su bianco le glosse e le postille raccolte qua e là fra le pagine dei libri. Diventavano testi più lunghi e corposi, che avevano perciò bisogno di una certa struttura, di un certo ordine. Pian piano perciò sono passato dalle pagine manoscritte alle recensioni da tastiera, fino ad arrivare alla sezione del blog dedicata proprio agli articoli sui libri: oggi alcuni di questi ottengono, a distanza di anni, un discreto successo, visto che stando alle statistiche trainano il numero di visite che il blog registra ogni mese. Segno che un buon libro lascia impronte ben visibili nel tempo e che ci sono ancora lettori disposti a fidarsi dello sconosciuto della porta accanto.
Quali generi preferisci?
Preferibilmente libri di poesia ma non solo: cerco di non fossilizzarmi su un unico tipo, ma di coprire più generi – ma senza letture in parallelo. Per questo ho recensito negli ultimi anni libri molto diversi, dai romanzi di fantascienza ucronica ai reportages/memoriali di guerra. Da un po’ di tempo leggo anche qualcosa di odeporica: la letteratura di viaggio è veramente appassionante, ti garantisce se non altro la dolce illusione di poter viaggiare restando sul divano di casa. E in tempi come quelli che stiamo passando, non è poco. Ogni libro è già un viaggio di per sé: se poi è un viaggio che parla di un viaggio, meglio ancora.
Come scegli i libri da leggere?
Mah, tento di portare avanti una specie di filone, un'idea generica da approfondire, una suggestione che magari mi porto dietro dall’ultima lettura, da un viaggio precedente, o magari – perché no – da una lezione fatta a scuola. Da tempo per esempio mi interessa il tema del confine, della frontiera. Alcuni libri che ho letto parlano di questo: penso a Paolo Rumiz, a Ivo Andric, a Breviario mediterraneo di Matvejevic che sto affrontando adesso, e anche a Il bosco del confine di Federica Manzon che ho scoperto per caso durante una rubrica televisiva ma che fa letteralmente al caso mio e che mi riprometto di prossimamente. Nulla mi vieta però di dirottarmi altrove, qualora capiti un libro meritevole, anche di un esordiente.
Quali criteri di valutazione applichi nel recensire un’opera di narrativa?
Ogni lettura è una storia a sé, e ogni recensione nasce da lì, dipende dalla genesi della lettura: un libro suggerito da un passaparola o dal sentito dire è diverso, che so io, da un libro ritrovato a casa e/o più volte rinviato, così come un libro da tempo agognato e desiderato dà un carico di suggestioni iniziali differente per esempio dal “mattone obbligatorio”, il classicone che tutti ritengono una pietra miliare della letteratura mondiale e che tu hai sempre scartato per colpa di altri interessi. L’approccio perciò è fondamentale: se il libro rimane coerente alle suggestioni della vigilia, allora le sue quotazioni interne variano al rialzo e mi dico «aggiudicato, farò la recensione!»; se però ci sono storture, la lettura inizia a essere claudicante, se comincia a perdersi in mille rivoli inconcludenti, allora arrivo alla conclusione che non ne valga la pena e passo oltre, nel senso che continuo a leggere anche solo per il gusto molto borghese di vedere «come va a finire» ma non ci dedico altro tempo. Ultimamente mi è capitato con Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro: molto al di sotto delle aspettative con cui mi era stato presentato. Ci sta anche questo, nell’attività del recensore: capita, di prendere qualche granchio.
Che cosa pensi della cosiddetta “editoria” a pagamento?
Beh, su questo non riesco ancora a farmi un’idea definitiva. Personalmente ho pubblicato tre libri di poesie con case editrici a pagamento: le esperienze di volta in volta sono state massacranti, dal punto di vista economico, o snervanti, per via delle lungaggini, delle complicazioni, di certi fraintendimenti. Alla fine però contava sempre la buona riuscita del prodotto finale, e desiderando tanto la pubblicazione del libro nel momento in cui lo avevo in mano mi sentivo del tutto ripagato degli sforzi. Nonostante ciò, sull’editoria a pagamento continuo ad avere un’idea ambivalente. Le case editrici di oggi sono spesso vere e proprie agenzie letterarie, più che cenacoli culturali: offrono servizi editoriali, consulenze a pagamento, il lavoro dei tanti addetti del settore dall’editor al correttore di bozze, dal grafico al content web writer. Una macchina complessa che costa, e può arrivare a costare anche tanto. Sarà un caso che da quasi un secolo questo mondo viene anche chiamato anche editoria della vanità? Ecco perché, da una parte, l’editoria a pagamento mi sembra un’illusione democratica di poter finalmente pubblicare, di “uscire” a tutti i costi: l’occasione per poter dire a tutto il mondo «ehi, baby, ci sono anch’io col mio libro figo, mi vedi?». Dall’altra parte, e proprio per lo stesso motivo, l’Eap è l’unica strada percorribile per sperare di fare breccia nel mare magnum di carta che ci circonda: è pur sempre un inizio, anche se un inizio che costa sempre caro. Anche Italo Svevo per dire iniziò così, e sia Una vita che Senilità furono pubblicati a sue spese: senza quei tentativi oggi non avremmo La coscienza di Zeno. Perciò, ogni volta che si decide di scrivere un libro, la domanda che uno dovrebbe porsi è: che ambizioni ho? vale davvero la pena condividere queste mie righe con il resto del mondo? la storia che racconto o i versi che ho partorito meritano un po’ d’attenzione, o sono bazzecole inutili? e poi, sono disposto a tutto, anche a fare un patto con quel piccolo diavolo che è l’editore? Insomma, per uscire con un libro sarebbe preferibile guardarsi allo specchio con buonsenso, per evitare di fare la stessa fine di Pirgopolinice, il soldato fanfarone e vanesio della commedia di Plauto, che mette se stesso al centro della scena in ogni istante millantando meriti che non ha. Come vedi, andiamo a sbattere sempre lì, alla vanità: quanti ce ne sono oggi, di piccoli e arroganti saltimbanchi, che pubblicano un libro solo per un attimo di notorietà?
Molti recensori sono anche autori, come nel tuo caso, tu personalmente in quale dei due ruoli ti senti più a tuo agio?
Mah, difficile rispondere in questo caso: se uno ci pensa bene, ogni autore è innanzitutto uno che ha letto tanto per potersi formare uno stile, un metodo riconoscibile. Mi sento quindi un incompleto lettore, che ha ancora tanto, tantissimo da leggere, e a mo’ di chiasmo un autore incompleto, che ha scritto poco e che invece molto vorrebbe scrivere. È vero: i libri che scandiscono le nostre vite, quelli che diventano memorabili ed entrano veramente nel bagaglio di ciascuno, si contano forse sulla dita di due mani. Eppure non c’è scampo: siamo fatti di libri, sentiamo citazioni e aforismi da quando siamo nati, soprattutto oggi a causa dell’industria culturale siamo bombardati di libri in ogni dove. Perciò sta a noi superare il trauma di una copertina, cominciare dal capitolo I e farci dirottare dentro una storia, in un altrove che può fornirci risposte e, soprattutto, aprirci nuovi dubbi.
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